Transessualità

I transatlantici ci portano da una sponda all’altra del Atlantico.
Le transazioni ci fanno superare le barriere di un contenzioso.
La transessualità ci fa superare il limite del sesso.
Perché ci sentiamo respinti dalla transessualità?

Perché è ‘contro natura’. Ma non sono poche le specie animali ermafrodite o di sesso variabile nel tempo.
E, se il fenomeno non è raro anche nella specie umana, perché dichiararlo ‘contro natura’? Chi può arrogarsi il diritto di giudicare ciò che è naturale e ciò che non lo è?

Solo chi fosse fuori dalla natura. Ma chi lo è?

Lasciamo quindi perdere il tema della ‘naturalità’ e ammettiamo che il nostro rifiuto sia essenzialmente culturale. Possiamo senza difficoltà immaginare una cultura non ostile verso la transessualità (come verso la omosessualità, addirittura verso la pedofilia), in altre parole una cultura disinibita sessualmente, senza tabù. Forse ci stiamo avviando verso una tale cultura. Per raggiungerla dovremmo però liberarci dai ‘padroni del sesso’, le religioni (almeno alcune) e le morali.

Ma transessualità non è solo un problema di codici (morali, religiosi, civili); è anzitutto un problema di identità. Ma uno è ciò che è, mescolanza variabile di elementi maschili e femminili. In questo senso ognuno di noi è in qualche misura transessuale. E, se è più femmina che maschio o più maschio che femmina è semplicemente un dato che lo riguarda e non qualcosa da valutare positivamente o negativamente. Semmai una mescolanza dei caratteri può risultare più vantaggiosa nell’affrontare la complessità delle situazioni reali che non una ‘monosessualità’ esclusiva.

C’è comunque la questione fisiologica, indubbiamente la più difficile da affrontare e risolvere, quando è possibile. La chirurgia plastica ha fatto certamente grandi progressi negli ultimi anni, grazie anche alla sperimentazione cui molti transessuali si sono sottoposti, più o meno volontariamente; ma i risultati parziali ottenuti sono ancora lontani dal corrispondere alle attese dei richiedenti, troppo definitivi sono i caratteri sessuali primari nei mammiferi.

È abbastanza strano che l’opinione comune accetti con commiserazione la malformazione di un braccio o di una gamba e rifiuti quasi come scandalosa una malformazione dell’apparato sessuale. La cosiddetta ‘malformazione’ –che altro non è che una ‘formazione’ meno probabile– può anche non riguardare la forma esteriore dell’individuo ma solo la distribuzione interna degli ormoni ed ecco i fenomeni dell’omosessualità, transessualità come anche tutte le gradazioni intermedie della normalità. E tanto meno si giustifica l’ingerenza della morale e delle religioni in questioni che riguardano unicamente l’Io individuale. Ma se è proprio questo Io a sentirsi scisso, a non riconoscersi pienamente, e questo perché gli manca il riconoscimento esterno, non dovrebbero proprio la morale e la religione per prime offrigli questo riconoscimento allo stesso titolo che a qualunque altro?

Se la transessualità è una malattia, chi è il malato, il transessuale nella sua ‘naturalità’ o chi di questa sua ‘naturalità’ non si accorge?

Mercato

Per parlarne tecnicamente –e forse è questa l’unica maniera ‘seria’ di parlarne– occorrerebbe avere delle competenze specifiche che nessuno di noi del CMC possiede. Ne consegue che faremmo bene a tacere sull’argomento. Poiché tuttavia il modello mercato pervade ormai quasi tutti gli aspetti della quotidianità e di questa siamo tutti partecipi, si deve riconoscere a ognuno il diritto di parteciparvi non solo come elemento passivo utile al funzionamento del modello, ma anche come osservatore critico in cerca di alternative.

Non parleremo quindi del mercato dal punto di vista tecnico (dove non saremmo ‘seriamente’ credibili), accenneremo soltanto ad alcune ‘condizioni al contorno’ che ci sembrano accessibili anche a chi non se ne intende.

Il mercato è oggi quasi sinonimo di concorrenza e si presenta sostanzialmente come uno strumento di crescita produttiva provvisto di un meccanismo di retroazione che ne impedisce l’esplosione incontrollata. Questo meccanismo, il cui funzionamento è peraltro ostacolato da altri meccanismi al servizio di interessi particolari (come per esempio il costituirsi di situazioni di monopolio), non mira all’omeostasi, cioè al consolidarsi di un equilibrio stabile nel tempo, ma all’omeoresi, cioè a un accrescimento frenato ma non impedito. Ci dicono gli studi ecologici (sullambiente) che già il permanere dell’attuale condizione produttiva sarebbe insostenibile per il nostro pianeta oltreché per buona parte dei suoi abitanti (umani inclusi); un’ulteriore crescita, soprattutto sperequata come oggi la vediamo, ci avvicinerebbe a un punto di non ritorno, al di là del quale l’estinzione –forse non solo nostra– sarebbe solo questione di (poco) tempo. Non possiamo essere certi che questa valutazione colga nel segno; potrebbero per esempio prodursi innovazioni tecnologiche che allunghino (di quanto?) i tempi di ulteriore crescita della produttività. Vogliamo correre il rischio?

Le alternative sono due

· accontentarci dello status quo, cioè dell’omeostasi,

· rassegnarci a una contrazione della produttività, alla sua decrescita.

Nella prima –il perseguimento dell’omeostasi– il problema principale sarebbe la redistribuzione della ricchezza e del welfare, cosí da agganciare l’omeostasi produttiva alla parificazione dei diritti (una sorta di società comunista).

Nella seconda –la decrescita produttiva– il problema principale consisterebbe nel convincere chi produce a produrre –e quindi a guadagnare– di meno senza scaricare il mancato profitto sulle spalle di chi profitto non ne ha.

Per ambedue le alternative è necessaria una ‘rivoluzione culturale’ incruenta, da iniziarsi sui banchi di scuola, una rivoluzione che sposti l’asse educativo dalla ‘patrimonializzazione del sapere’ all’esercizio –altrimenti indirizzato– della mente. Rivalutazione del sapere come motore del pensiero; non concorrenzialità tra i cervelli, ma sinergia ai fini della sopravvivenza.