Vendetta

"La miglior vendetta è il perdono".

Ed effettivamente il perdono, in quanto per antitesi accentua la colpa, la fa gravare per intero sulle spalle del colpevole …
Ma non è certo questa l'intenzione di chi perdona, almeno nella maggioranza dei casi. Comunque la magnanimità del gesto colloca il perdonante a un livello molto superiore al colpevole e questo fatto può addirittura generare un desiderio di rivalsa che accresce anziché attutire il senso di colpa. Come rispondere allora a un'offesa senza vendicarsi né perdonare?

Cercare di capire che cosa ha spinto l'altro a offendere e soprattutto non interpretare l'offesa come ‘colpa’, semmai come ‘errore’. Questo può capitare a tutti, quella resta iscritta nel casellario giudiziario della nostra coscienza, e a nessuno che non ne sia l'intestatario dovrebbe essere permesso di iscriverci o cancellare alcunché.

La nostra Chiesa ci fa carico di una colpa originaria che sopravvive al ‘perdono’ del battesimo; difficile interpretare gli infiniti guai dell'umanità altrimenti che come una vendetta divina. Gesù almeno deve averli interpretati così, visto che ha tentato di espiare col suo sacrificio non le colpe degli uomini ma la vendetta paterna.

Non credo che questa lettura del testo evangelico sia ortodossa, non so neppure se sia più o meno ‘giusta’ di altre. Penso che sia comunque possibile. La passo al lettore così come l'ho ricevuta e lascio a lui di considerarla degna di riflessione oppure no.

Valutazione

Valutazione = attribuzione di un valore.

'Valutare': un gioiello, un edificio, una situazione, una distanza …
il rendimento di un pozzo petrolifero, di un allievo, di un insegnante …
Come si valuta: a occhio, per esperienza, misurando, statisticamente …

La valutazione è tra le attività più diffuse e praticate tra gli uomini: chi valuta è quasi sempre in una posizione sociale più alta di chi viene valutato o chiede una valutazione, per esempio è un 'esperto'. In molti casi la valutazione, soprattutto se preventiva, è indispensabile per il buon andamento di un'operazione. A seconda dei casi una valutazione è più o meno affidabile, la sua principale caratteristica è comunque un certo margine di incertezza che dovrebbe renderci guardinghi dal darle troppo credito. I percorsi formativi sono generalmente punteggiati da innumerevoli momenti di valutazione che di questa hanno fatto una disciplina a sé, la 'docimologia' con tanto di statuto parascientifico. Dietro tale disciplina non è difficile scorgere un intento semplificatorio; il numero dei soggetti da 'valutare' è a tal punto aumentato che la valutazione personale è diventata troppo dispendiosa e si ricorre alla mecanizzazione (quiz, problemi a soluzione precostituita, calcolo dei punteggi ecc.). A prescindere da fattori psicologici che in molti casi offuscano l'attendibilità di questo tipo di valutazione, ciò che viene valutato è in genere solo l'apprendimento passivo e ben più di rado il pensiero attivo (che può essere contrario a ciò che si è appreso). Un'affidabile valutazione –reciproca– pensiamo nasca dalla consuetudine lavorativa ben più che da occasionali momenti di verifica. Questo pone dei problemi alla valutazione preventiva: in nessun caso pensiamo la meccanizzazione debba avere il sopravvento sulla valutazione personale.

Tradimento

Hai tradito le nostre aspettative! Ma chi vi ha detto di farvele?
Giuda ha tradito Gesù
Ma se non lo avesse fatto?
L'accordo è stato tradito
Lo dicono tutte due le parti
Ha tradito la patria
Perché non sapeva qual’era
Lei lo ha tradito
Lui si limitava a trascurarla
...
...

È parola possiamo dire unidirezionale. Anche se a usarla sono ambo le parti contendenti: infatti di regola il tradimento si subisce e chi lo compie non lo riconosce come tale, salvo forse Giuda (che peraltro agiva per volontà del Signore).

Il tradimento esige vendetta. La colpa è così grave che per essere compensata ha bisogno di una colpa quasi altrettanto grave. È quel ‘quasi’ che in genere assolve il vendicatore.

Ma perché il tradimento viene considerato una colpa, e per giunta così grave da meritare la vendetta?

Eppure non è che il venir meno a dei patti conclusi tra esseri umani, quindi fallibili. O meglio è un venir meno a una certa interpretazione dei patti, evidentemente non condivisa dall'altra parte. Giustamente la vendetta è stata espunta dai codici come motivazione valida di un delitto. Ma un conto è l'invalidazione razionale, altra cosa l'impulso irrazionale che spesso innerva l’azione ben più che non faccia la razionalità. E il tradimento sollecita proprio la reattività profonda, istintuale della nostra umanità, tant'è che ci piace riscontrarlo anche dove non c'è e prestiamo volentieri attenzione a chi ci vuole convincere della sua presenza. Ne devono aver saputo qualcosa sia Otello che Jago, forse anche Desdemona, ma sicuramente Shakespeare.

Terrore

Vedere paura - terrore.

Successo / Fallimento

Molti vedono la vita come un susseguirsi di successi e fallimenti. Nessun altro animale la vedrebbe così. Anche gli animali si mettono alla prova, non per 'vincere' o 'perdere', ma per il cibo, la conquista del partner, il predominio sul territorio. Noi a queste cose aggiungiamo l'orgoglio del successo, l'onta del fallimento. Forse nei mammiferi, in particolare nei primati, comincia a farsi strada qualcosa come il 'sentimento di sé'. Se si fallisce, che sia almeno con dignità! Le peggiori ferite sono per noi quelle dell'orgoglio. Fino a poco tempo fa un marito tradito si preoccupava più della perdita dell'onore che della moglie. Non tanto sono le cose, i fatti, le situazioni a segnare la nostra vita quanto la lettura 'culturale' che ne diamo. Gioie e dolori dipendono in larga parte da questa lettura. Visto il nostro successo (?) evolutivo c'è da pensare che questa aggiunta culturale sia un valore positivo per la sopravvivenza. Sarà così?

Stupidità

La si identifica con l’incapacità a riflettere, addirittura a pensare. Molti ritengono questa incapacità assai diffusa, e che quindi pensiero e riflessione siano compito di pochi. Stranamente questa convinzione si trova anche tra chi dovrebbe saper pensare e riflettere per mestiere. La stupidità è invece piuttosto rara e non coincide affatto con quella incapacità. Viene di solito ritenuto ‘stupido’ non chi non sa pensare ma chi pensa diversamente. Le società hanno infatti elaborato forme di pensiero standard che tendono a emarginare chi non vi si attiene. Hanno inoltre costruito gerarchie intellettuali per cui solo chi pensa determinate cose rientra tra i pochi incaricati del pensiero. Mentre non è raro il caso di filosofi e scienziati incapaci di ‘pensare come comunemente si pensa’. La letteratura umoristica è piena di sapienti ‘imbranati’ nella quotidianità, di contadini analfabeti ma eccellenti penstatori.

Spesso si scambia per stupidità l’ignoranza di alcuni saperi ritenuti qualificanti mentre di altri, ritenuti di rango inferiore, non si tiene conto anche se indispensabili al vivere quotidiano. Siamo capaci a riflettere su queste incongruenze? Si conoscono invero delle patologie con sintomi di ‘stupidità’, ma non è a queste che si riferisce l’uso normale della parola. E se provassimo a rivoltare le carte e a pensare che, salvo i casi di competenza del medico, lo ‘stupido primario’ non esiste e se qualcuno ci appare tale non è su lui che dobbiamo indagare ma su noi stessi, probabilmente incapaci di assumere il suo modo di pensare? Viceversa esiste ed è equamente distribuita una ‘stupidità di ritorno’, dovuta alla disabitudine al pensiero e di questa è responsabile la cultura.

Strumento

È un'altra parola tuttofare che si adatta altrettanto bene a un violino, alla matematica e a una forchetta. Ed è tra le più ammirevoli prestazioni del nostro cervello che non ci capiti di suonare la matematica e di mangiare con il violino. A dire il vero, ci dà una mano la lingua (quella che parliamo), che determina i significati no  parola per parola ma attraverso il discorso.

A noi qui 'strumento' ci interessa nel significato di 'mezzo per …' Alcuni strumenti li abbiamo in dotazione: braccio, gamba, sensi, lo stesso cervello … ; altri ce li possiamo comprare, dal martello all'automobile, al computer, altri ancora, tra cui quelli mentali, dobbiamo costruirceli personalmente con l'aiuto dei nostri consimili. Ma nessuno dà niente per niente e anche questo aiuto dobbiamo ripagarlo usando gli strumenti secondo le istruzioni allegate. E così della nostra persona facciamo un membro della società, un passo necessario per la nostra sopravvivenza. Il punto non è quindi contestare l'uso 'normale' degli strumenti ma riflettere su questa normalità e mantenere una porta aperta per le alternative (vedere Piccolo dizionario) che forse arricchiranno la 'normalità' di domani. Esempio:

– La logica è un potente strumento del pensiero che ci permette di risolvere molte situazioni problematiche. Aristotele lo ha descritto con molta cura e reso disponibile a noi tutti, tanto che per più di 2000 anni ce ne siamo serviti quasi automaticamente, basando su di essa persino i nostri modernissimi computer. Poi ci siamo accorti che la 'normalità' della logica aristotelica invitava a ulteriori riflessioni –sui suoi limiti, sui casi logicamente in decidibili, su possibili logiche alternative …–; attualmente anche la logica non è più un articolo di fede, ma uno strumento duttile su cui è possibile ragionare.

Straniero

Quello 'stra' –che viene dal latino extra = fuori– conferisce alla parola un ché di strano, sospetto, da tenersi lontano, fuori di casa propria ... aggiungi il fatto che lo straniero in genere parla male la nostra lingua (anche se è un accreditato scrittore nella sua), ha abitudini un poco diverse dalle nostre e forse anche pensa diversamente (pur pensando come noi che due più due fa quattro): tutto questo lo rende un po' meno essere umano di noi. Gli antichi immaginavano gli abitanti di terre lontane come esseri mezzo uomini e mezzo animali. Del resto anche il nostro civilissimo Occidente fino a poco tempo fa considerava i negri e gli indios 'razze inferiori' mentre per non pochi gli ebrei andavano eliminati perché inquinavano la 'razza bianca'. E oggi?

Un italiano che delinque è semplicemente un delinquente, ma se a delinquere è un rumeno, è un delinquente perché è rumeno. Certo non tutti pensano così, ma di fronte al delitto di uno straniero, soprattutto se extracomunitario, ci dimentichiamo, momentaneamente, di mafia, camorra e 'ndrangheta.

Questa irrazionale reazione verso lo straniero è biologica o culturale? A parte l'irrazionalità di questa stessa distinzione –la cultura non fa parte della vita?–, nel mondo animale un istinto avverso individui della stessa specie si riscontra nella competizione sessuale, nella territorialità e in certe società di insetti. Non è improbabile quindi che anche per l'uomo il meccanismo sia analogo e che quindi siamo tutti un po' come gli antichi pensavano gli stranieri lontani, mezzo uomini e mezzo animali (sempreché non lo fossero per intero). Alla metà animale abbiamo poi sovrapposto la cultura marchiando certi nostri consimili come 'stranieri', salvo poi, quando ci conviene, idealizzarne altri come 'modelli di modernità'.

Stasi

Vedere movimento / stasi.

Stabilità / Instabilità

Come per molte altre coppie oppositive, il termine stabilità riceve una valutazione positiva anche dal punto di vista etico-comportamentale: un carattere stabile viene preferito a uno instabile, un'unione stabile a una instabile. Perché questo, quando tutto nel mondo sembra soggetto a instabilità?

Una risposta univoca non è probabilmente a disposizione e non resta che avanzare delle ipotesi. Una di queste è la seguente:

la vita ci tiene alla propria conservazione, anzi, forse coincide proprio con la 'volontà' di durare nel tempo. Tollera quindi un certo grado di instabilità che le permetta di far fronte all'instabilità dell'ambiente. Quando però questo limite viene superato subentra il rifiuto: la vita retroagisce cioè mettendo in atto meccanismi capaci di riportare l'instabilità entro i valori consentiti. Nella specie umana questi meccanismi possono essere di natura ideologica piuttosto che fisica ed ecco la preferenza accordata alla stabilità. Nei fatti tuttavia anche la vita, segnatamente quella umana, è dominata dalla instabilità, ed è a questa, o meglio alla sua accettazione e al suo controllo che le pratiche formative dovrebbero allenare individuo e collettività. Ciò potrebbe voler dire che l'esercizio del dubbio e l'insicurezza che ne deriva non vanno lasciati all'emergenza casuale, ma fatti rientrare nella pianificazione educativa a tutti i livelli fin dalla scuola di base.

Che ne pensa il lettore di questa ipotesi e delle sue conseguenze per la scuola?

Speranza

La speranza muove all'azione? O favorisce l'attesa inerte?

È un atteggiamento positivo o negativo verso il futuro?

Produce una sensazione piacevole o dolorosa?

La logica binaria o/o è del tutto insufficiente a misurare la speranza, la cui caratteristica principale è l'oscillazione, quasi da compresenza del e del no. Istante per istante non è possibile stabilire in quale posizione la speranza si trovi. 

La speranza ha un inizio, una fine?

Sì, se è specificato il suo oggetto e allora l'inizio è dato dal momento in cui questo si manifesta, la fine dal momento in cui per una ragione o per l'altra cessa di attirare su di sé la speranza.
Se consideriamo ‘speranza’ come uno stato d'animo, questo è tendenzialmente permanente, cambia solo il suo oggetto (→ delusione – rassegnazione).

Sopravvivenza


Il nostro insistere sulla sopravvivenza come orizzonte ideologico di IMC da un lato parifica questa a qualsiasi altra ideologia togliendole ogni pretesa di superiorità. Dall'altro permette un'ampia convergenza culturale: la maggior parte degli individui risponderebbe positivamente alla domanda se ci tengono alla sopravvivenza.

Questa risposta potrebbe però essere irriflessa, quasi istintiva e riferita piuttosto alla propria persona o tutt'al più all'umanità circonvicina. Alla sopravvivenza di una tribù amazzonica o della nostra stessa civiltà tra un migliaio di anni ci mostreremmo assai meno interessati e poco disposti a sacrificare anche solo una piccola parte del nostro benessere attuale. La nostra congenita miopia per ciò che è lontano da noi nello spazio e nel tempo poteva forse essere un vantaggio evolutivo fin quando le nostre capacità di occupazione mentale dello spazio e del tempo erano limitate a piccoli intorni del qui ed ora. Oggi questa miopia sembra ci stia conducendo a una rapida estinzione. Ma sempre la stessa miopia ci fa sopravvalutare tale possibile estinzione rendendoci indifferenti nei confronti di altre estinzioni sia passate che presenti.

In questo senso IMC è più radicale di altre ipotesi. Il suo orizzonte ideologico non ammette compromessi: se ci teniamo alla sopravvivenza, dobbiamo renderci disponibili alla relativizzazione metaculturale –che, ricordiamo, non ha a che fare con la relativizzazione assoluta– e accettare le conseguenze che ne derivano.

E –per raccordare tra loro queste generali considerazioni sui rapporti tra UMC e sopravvivenza– vorremmo indicare nella relativizzazione metaculturale la costante metodologica da trasferire in ogni operazione che intendiamo compiere sul 'reale' o sul 'pensato'.



Scienza

Scienza s.f. Che cosa si intende oggi per 'scienza'? Fino a ieri si pensava a una 'ricerca della verità', al progressivo avvicinamento alla comprensione della 'realtà'. Ancora in un recente libro di Roger Penrose intitolato The road to Reality, ove peraltro più che alla realtà si pone mente alla via o piuttosto alle vie per raggiungerla. Nell'interpretazione, ormai quasi istituzionalizzata, di Karl Popper una certa proposizione è scientifica se è osservazionalmente falsificabile. Se non lo fosse –come per esempio IMC– non avrebbe senso parlare di 'scienza'. Per il pensare di un tempo il criterio popperiano rappresenta un assurdo: più che la –inconfutabile– verità la scienza perseguirebbe la 'falsificabilità'!

Ne consegue per lo scienziato una sorte di schizofrenia affettiva: da un lato la scienza affannosa di un qualcosa che invalidi la sua teoria, dall'altro la speranza non meno affannosa che questo qualcosa non si trovi. La vita con IMC è decisamente più comoda! Come si considera la scienza –in senso popperiano– dal punto di vista mc?

Anzitutto occorre ricordare che, per IMC, ogni punto di vista non può essere che culturale e quindi può fregiarsi del prefisso 'meta' soltanto se viene dichiarato e relativizzato alla cultura che l'ha prodotto. Così trattato, ogni punto di vista diventa metaculturale e IMC può produrne infiniti. Se tutti fossero egualmente validi, tanto varrebbe dire che nessuno lo è, il che si verificherebbe puntualmente se come UCL di riferimento adottassimo UMC. Ma sappiamo l'inabitabilità di UMC, non resta quindi che scegliere un UCL conveniente. Conveniente a chi? Come sceglierlo? Nel caso della scienza la sua valutazione mc è subordinata –secondo quanto già detto innumerevoli volte– al solo criterio della sopravvivenza. Nella sua storia recente è indubitabile che la scienza abbia dato un largo contributo al welfare dell'umanità migliorando, là dove lo ha fatto le condizioni di vita del singolo come delle popolazioni. Il guaio è che non lo ha fatto dappertutto accrescendo così la disparità fra chi era privilegiato dal suo sviluppo e chi non lo era, ma soprattutto favorendo al massimo chi era in grado di sostenere le enormi spese di quel progresso, reso possibile appunto dall'acuirsi della disparità. Sono cose ben note e variamente interpretate in sede politica, e non è nostra intenzione riaprire qui conflitti ideologici cui la scienza si è sempre dichiarata esterna, senza peraltro riuscirci.

In particolare un aspetto collaterale della scienza, la tecnologia, viene spesso fatta oggetto di opposte valutazioni: osannata dai più per le evidenti facilitazioni apportate al viver quotidiano, comincia oggi a essere guardata con sospetto da una minoranza che la incolpa di trasferire alle macchine la responsabilità che gli uomini hanno –o dovrebbero avere– riguardo alla sopravvivenza loro e della vita stessa sul nostro pianeta.

Più grave ancora è l'ideologizzazione della tecnica e in larga misura della scienza stessa che dei rispettivi UCL ha fatto dei paradigmi di assolutezza paragonabili a quelli delle più pericolose religioni monoteiste. Non a caso vediamo queste religioni radicalizzare certe loro posizioni antiscientiste, quasi si trattasse di intraprendere nuove crociate contro una religione rivale. Se la scienza rivendica con qualche ragione la sua indipendenza dal potere politico, non può certo rivendicarla nei confronti del potere economico, da cui dipende quasi per intero. La stessa cristallizzazione ideologica della scienza intorno al concetto di 'numero' e 'misurabilità' è probabilmente dovuta, più che al 'pensiero scientifico' in quanto tale, al potere che la sostiene. L'analogia con ciò che si osserva nelle grandi religioni monoteiste fa della scienza appunto un valido concorrente.

A queste considerazioni che non ci aspettiamo affatto vengano largamente condivise un'altra se ne aggiunge contro cui è più difficile obiettare. Sono proprio gli scienziati che ci segnalano la crescente pericolosità del modello di vita che l'occidente sta imponendo all'umanità, modello alla cui costruzione scienza e tecnologia hanno dato il principale contributo. Il paradosso sta in questo: che oggi ci vediamo costretti a rivolgerci, per la nostra sopravvivenza, proprio agli UCL corresponsabili dell'attuale situazione di pericolo. Mentre forse, per transitare verso un'era di maggiore sicurezza e –diciamolo pure– di effettiva ripresa della vita (che potrebbe manifestarsi, almeno inizialmente, come una diversa distribuzione del welfare), avremmo bisogno di un nuovo 'stile di pensiero' piuttosto che di nuove e sempre falsificabili teorie scientifiche.

Rischio

Il rischio fa parte della quotidianità: a piedi, in macchina, al chiuso, all'aperto, da giovani, da vecchi ... non c'è giorno che non corriamo qualche rischio. Spesso neppure ce ne accorgiamo, talvolta però lo sopravvalutiamo, tanto da averne paura, come capita a molti nel salire su un aereo. In linea generale tuttavia lo mettiamo in conto senza preoccuparcene eccessivamente. In tempi passati l'insicurezza era probabilmente una condizione abituale di vita (quando questa durava in media sui 35-40 anni); oggi per molti di noi –non certo per tutti– il garantismo sociale ha diminuito grandemente i rischi del quotidiano, tanto che possiamo contare su una vita media di 75-80 anni. È diminuita altrettanto la paura del rischio?

Tanto quanto la paura, è ben conosciuto, soprattutto tra i giovani, l'amore per il rischio. Il rischio come spettacolo –vero o finto che sia– domina gran parte della TV e del cinema. La sfida del rischio attira anche persone altrimenti calme e pacifiche. Su questa attrattiva fanno leva certe ideologie come la mascolinità, il patriottismo, le religioni e, attraverso quelle, i poteri che se ne servono.

L'amore per il rischio è quindi per una parte indotto culturalmente, per un'altra però connaturato a una stagione della vita e certo non in contrasto con la vita stessa. I rischi affrontati da Cristoforo Colombo e compagni ci hanno regalato le Americhe –sottraendole peraltro ai loro legittimi proprietari–.

Daremo quindi di rischio e dell'amore per esso una valutazione positiva o negativa?

Ripetizione

Una canzone ripete il suo ritornello: due, tre, quattro volte. E noi continuiamo a ripeterlo canticchiando o anche solo pensandolo. La ripetizione scava un solco nella memoria, sempre più profondo e ci piace camminarci dentro, ritrovare o riprodurre il già noto. La ripetizione ci rassicura, esorcizza il tempo che passa, ci illude di eternità ...

Ma esistono le ripetizioni, o meglio sono uguali tra loro?

Una canzone che oggi ci fa felici domani nel ricordo ci rattrista. È sempre la stessa canzone?

“Se hai ripetuto il vero sei un bugiardo” sta scritto da qualche parte in un antico libro di saggezza cinese. “Non puoi fare due volte il bagno nello stesso fiume” ha detto un greco. Una musica ripetuta non è la stessa musica perché occupa un tempo diverso. E anche per l’ascoltatore non può essere la stessa: al primo ascolto è una novità, al secondo un ricordo, dal terzo in poi subentra l’assuefazione, l’abitudine, e a mano a mano l’oggetto scompare e resta solo il condizionamento, il ‘non poterne più fare a meno’.

Ma, se così stanno le cose, come mai la ripetizione passiva praticata dalla ‘musica di consumo’ (ma non solo da quella), trova così ampio consenso? Lasciamo ai lettori e ai ‘consumatori’ di musica il compito di riflettere, se lo vorranno, su quanto qui detto da un anziano compositore, a cominciare da quel “se così stanno le cose” che va anzitutto verificato. L’anziano compositore è probabilmente un ‘uomo di parte’ e la parte che lo vede schierato potrebbe non essere quella cui lui si rivolge.

Ricchezza

Vedere povertà / ricchezza.

Religione

Religione. Ne parliamo in questa sede al singolare collettivo. Non è questione infatti di quali siano più o meno pericolose per la sopravvivenza (ricordiamo che questa rappresenta per noi l'orizzonte ideologico entro cui intendiamo muoverci). Sarebbe certo possibile graduare in qualche modo la pericolosità delle singole religioni, ma è forse più proficuo spostare lo sguardo da queste alle centrali di potere che le gestiscono. Non è comunque nostro proposito indagare in tal senso. Le suddette centrali non avrebbero del resto alcun potere se non fosse universalmente diffuso uno 'stile di pensiero' definibile come 'religioso'. Lo si riscontra di fatto in tutte le popolazioni storiche, protostoriche e attuali, anche se non in tutti i singoli individui. Possiamo intendere le religioni come le varianti culturali locali (UCL) di questo 'stile'. Come sappiamo, le religioni sono state e sono tra le maggiori istigatrici al confronto bellico nonostante palesi affinità ideologiche (tra cui massima l'idea di Dio) di cui ciascuna rivendica la rappresentatività assoluta. Fin quando le guerre, per disastrose che fossero, non costituivano un pericolo per la sopravvivenza della nostra specie, alle religioni era concesso campo libero per ogni tipo di violenza. Oggi che la pericolosità della guerra investe tutto il genere umano e oltre anche lo 'stile di pensiero' religioso va fortemente ridimensionato alla sfera individuale con la speranza che receda quanto prima anche da questa. È essenziale però che alcune 'regole di convivenza', un tempo iscritta nelle 'tavole' delle religioni, vengano trasferite nelle 'tavole' di una laicità compatibile, cosa peraltro che si sta facendo almeno dalla Rivoluzione francese in poi, ma su cui siamo ancora lontani dall'avere la convergenza necessaria a garantire la nostra sopravvivenza. Potremmo anche dire che abbiamo bisogno di una religione 'laica' che sostituisca tutte le altre dopo la nietzschiana 'morte di Dio'. Il termine 'religione' è tuttavia troppo ricco di connotazioni per ora inespungibili; è inoltre legato a rimandi assolutizzanti e dogmatici, del tutto incompatibili con una fase di transizione verso un UCL laico di estensione planetaria.

Lo stile di pensiero 'religioso', anche se ancorato a religioni storiche, ha comunque pieno diritto di esistenza fin quando gli piacerà di esistere, purché non si associ a forme di potere che annebbino la consapevolezza individuale.

Realtà

Realtà. Non c'è ragione di dubitare della realtà. Non certo perché la vediamo o la sentiamo o la viviamo: i sensi, anche l'appercezione o il principio di causa potrebbero ingannarci. Ci vorrebbe un garante esterno, che quindi non sarebbe reale; dovremmo cioè inventarci questo garante, cosa che puntualmente abbiamo fatto innumerevoli volte e nelle più diverse forme (tra l'altro con la scienza).

Siccome però della realtà nostra, del mondo abbiamo bisogno per il tempo della nostra vita è saggia cosa non sprecare questo tempo a disquisire sulla realtà del reale. Consideriamola quindi, neppure come un'ipotesi, secondo che vorrebbe Konrad Lorenz, ma come un dato. Indiscutibile perché non vale la pena di discuterlo.

Nulla ci impedisce di considerare il 'concetto di realtà' un invariante, non per come ci si presenta o per come lo interpretiamo, ma per il fatto che da questo dobbiamo partire per ogni indagine o ricerca su che cosa sia realtà (anche se volessimo ridurla a illusione).

Abbiamo distinto realtà dal suo concetto e potremmo rendere ricorsiva questa distinzione precipitando nell'abisso di UMC. Utilizziamo quindi l'espediente dell'arresto e fermiamoci al 'concetto di realtà', dichiarandolo appunto un invariante mentre la 'realtà' stessa (o, se si preferisce, la sua immagine) è una variabile relativistica dipendente dai modelli interpretativi che ci piace adottare.

Rassegnazione

Vedere delusione - rassegnazione.

Prova

"La vita ci mette quotidianamente alla prova".

"Gli esami non finiscono mai".

Perché vedere la vita in questo modo? Non bastano le prove che ci impongono i nostri simili e quelle che noi imponiamo agli altri? E perché imporre delle prove? Perché la nostra società è costituita gerarchicamente, non egalitariamente come quella degli insetti sociali, che ha continuo bisogno di verificare l'efficienza del suo ordinamento gerarchico. Solo che le misure di efficienza troppo spesso non si basano sulle esigenze della società nella sua interezza ma su quelle di una piccola parte di essa.

Pretesto

“Era solo un pretesto, le sue intenzioni erano ben altre ...”

“L’argomento non è che un pretesto per un esercizio di stile.”

“Le presunte armi di distruzione di massa sono state il pretesto per un’aggressione difficilmente giustificabile in altro modo.”

“Sono tutti pretesti per giungere a lei ...”

...

Usiamo ‘pretesto’ per significare che in una certa azione non è stata compiuta per sé stessa ma per mascherarne un’altra che non si vuole o non si può dichiarare.

Ma perché “non si può o non si vuole?”

Le ragioni possono essere le più diverse:

– l’azione non godrebbe della generale approvazione,

l’azione è contraria a qualche legge,

– non vogliamo che siano conosciute le sue vere motivazioni,

– siamo interessati a sviare l’attenzione degli osservatori,

...

I pretesti alimentano la diffidenza. Anzi non di rado consideriamo ‘pretesto’ una finalità che invece è effettiva. Come fare per distinguere?

Forse conviene analizzare i ‘pretesti’ come se non fossero tali, fossero cioè buone ragioni, e solo in un secondo momento, una volta assodata la loro natura pretestuosa, trattarli di conseguenza. È ciò che le Nazioni Unite hanno fatto recentemente nel caso dell’Iraq, ma che non è valso a scongiurare la guerra.

Nella vita di tutti i giorni possiamo permetterci il lusso di giudicare delle intenzioni, quando però dal nostro giudizio dipende il destino di altri, occorre molta cautela. Ma la cautela lascia al pretesto il tempo per tradursi in azione ...

Precisione/Approssimazione

Lasciamo ai lettori la discussione su questi due termini. Sono oppositivi? Sono contigui? Chiaramente delimitabili? Non è affatto necessario (come per quasi tutti gli interrogativi aperti di questo glossario) che si arrivi a una conclusione condivisa.

Come ovvio alla discussione si legga la seconda parte (che comincia da ‘Come sempre’) della voce Necessità.

 

Povertà / Ricchezza

La povertà è ingiusta e mal sopportata se non è frutto di scelta. Ma la scelta della povertà ha senso solo in un mondo di ricchi. È quindi la ricchezza a rendere ingiusta e insopportabile la povertà, come anche a dare un senso alla sua scelta.

Che ne pensa il lettore di questo ragionamento che assegna comunque il primato alla ricchezza?

Ricchezza e povertà, anche se economicamente valutabili, non lo sono più se si adottano altri parametri. Non è vana retorica dire di una persona che è interiormente ricca o che è ricca di interessi. Certo, questi tipi di ricchezza presuppongono, se non la ricchezza, almeno una stabilità economica che permetta l'individuo di coltivare le altre. Ed è proprio la stabilità economica che viene negata ai più, oggi anche nel nostro Occidente ricco. E non è solo la stabilità in sé ma attraverso di essa viene negata anche la possibilità di pensare ad altro. Instabilità e povertà sono cioè indispensabili per l'autonomia dei ricchi, così come è indispensabile che i poveri non scendano al di sotto di una certa soglia di povertà, tanto da non poter più mantenere i ricchi.

Ancora una volta: che ne pensa il lettore di quest'altro ragionamento tendente a incolpare la ricchezza di tutti i mali?

Non abbiamo né intendiamo avere l'ultima parola su queste come su altre questioni. Ci basta sollecitare il pensiero comune perché rifletta autonomamente, anche senza il sostegno della ricchezza, sui problemi che ci riguardano da sempre.

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Fin quando le opposizioni riguardano solo le parole, se ne può discutere. Il fatto che nel mondo esistano non solo i ricchi e i poveri, ma i ricchissimi e i poverissimi non tanto dovrebbe essere discusso quanto eliminato. Ovviamente eliminando, non i ricchi (come pure talvolta è stato fatto) né i poveri (cosa anche questa tentata in più di un'occasione), ma le condizioni –sociali, economiche– che determinano l'opposizione.

È pensabile una soluzione del genere in democrazia?

I regimi totalitari si sono avvicinati talvolta –per esempio con il comunismo e il nazionalsocialismo– e, in formato ridotto, anche in certe comunità monastiche, ma le attuali democrazie sembra accentuino l'opposizione anziché eliminarla. Non è infatti con gli 'aiuti al terzo mondo' o con l'invio di forze armate a difesa della 'libertà' che si risolve il problema (e lo si è visto molte volte negli ultimi decenni). È più probabile che lo si possa risolvere limitando, se non la libertà, l'uso indiscriminato che se ne fa anche là dove manca perfino il concetto e forse anche l'interesse per lei.

L'esser povero o ricco non è un dato di natura come l'esser bianchi o neri, biondi o bruni, alti o bassi; è una condizione creata dagli uomini e quindi da essi controllabile. Non è affatto auspicabile una parità che finisce per scontentare tutti. La stessa interpretazione dei termini 'povero', 'ricco' varia da persona a persona. Premesso che a tutti venga riconosciuto il diritto a uno standard di vita mediamente accettabile (che elimini una volta per tutte la povertà imposta), il di più dipenderà dalle scelte individuali e da quanto ciascuno vorrà investire in esse. Per lo più saranno le scelte e gli investimenti economici a essere dominanti. C'è però anche chi ha interessi diversi da quelli economici. 'Ricchezza' e 'povertà' non si misurano necessariamente in termini monetari. E questi interessi 'altri' potrebbero diffondersi a mano mano che l'arricchimento economico venga controllato (autocontrollato). Se ne avvantaggerebbe la salute. La ricchezza (economica) inquina, la povertà molto meno.

Paura - Terrore

In quanto esseri viventi, anche gli uomini, come tutti gli animali, hanno paura di tutto ciò che ritengono possa attentare alla qualità della loro vita quando non alla vita stessa. A questo diffuso sentimento gli uomini cercano di ovviare progettando sempre più sofisticati sistemi di protezione e garanzie difensive.

Paradossalmente sono gli stessi uomini che progettano sempre più sofisticati sistemi di offesa in grado di seminare qualcosa che va molto al di là della paura: il terrore. La gazzella è terrorizzata dal ghepardo per il breve periodo del suo attacco; l'uomo prolunga lo stato di terrore per anni, e non sono solo i 'terroristi' a farlo. Una bomba che esplode in un mercato non cambia se è lanciata da un 'fondamentalista' o da un aereo che 'difende' dai fondamentalisti. Solo che in un aereo c'entrano molte più bombe.

Patria

Per un nativo di Busto Arsizio la patria è Busto Arsizio, la Padania, l'Italia, l'Europa, la Terra? E se lui o la sua famiglia sono emigrati da anni in California, è questa la sua patria o gli Stati Uniti?

La parola in questione è fortemente ideologizzata, al punto che per un oggetto così indistinto gli individui hanno dato la vita o l'hanno tolta ad altri individui. Come è potuto accadere e per giunta in modo così sistematico da millenni?

È un concetto derivato dalla ‘territorialità’ di tante specie animali?

È una conseguenza della ‘socialità’ della specie nostra?

È un'ideologia indotta dal ‘potere’ a propria salvaguardia?

È un sentimento ‘innato’?

È un costrutto ‘culturale’?

Le risposte saranno ovviamente diverse a seconda del UCL di riferimento. Molti non saranno neppure d'accordo nel considerare la patria un ‘oggetto indistinto’.
Negli ultimi anni, proprio in concomitanza con l'emergere del concetto di ‘globalità’, la patria, intesa anche come luogo delle ‘radici’ culturali di una comunità, ha riconquistato una centralità che si pensava perduta. Questa duplice, contrastante tendenza, convergente e divergente, ha forse a che fare con il problema che oppone omologazione a diversificazione? L'attuale periodo di transizione verso un nuovo assetto mondiale (o verso l'estinzione) richiede ambedue: l'omologazione per rendere impraticabile la guerra totale, la diversificazione o almeno il mantenimento delle differenze perché biologicamente indispensabili alla http://metaparole.blogspot.com/2008/10/sopravvivenza.html.

Ottimismo/Pessimismo

Consideriamo i due termini congiuntamente perché, come spesso accade, il loro significato emerge dalla loro opposizione.

Ottimista è chi, in una situazione di difficoltà, prevede un esito positivo o almeno la possibilità di un tale esito.

Pessimista è chi, anche in una situazione favorevole, prevede un esito negativo o almeno lo ritiene possibile se non addirittura probabile.

Ma che succede se in entrambi i casi l’esito si rivela negativo?

Il pessimista l’aveva messo in conto, non ne è quindi colpito in modo particolare, mentre l’ottimista al danno unisce la delusione e in più l'amarezza nel vedere sconfitto il suo ottimismo. E se l’esito è positivo?

L’ottimista vede confermato ciò che comunque già si aspettava, mentre il pessimista non può che gioire di essere stato smentito dai fatti. Conviene quindi prevedere il peggio, perché in ogni caso l’esito sarà migliore o eguale al previsto. Se invece abbiamo previsto il meglio, l’esito sarà uguale o peggiore delle nostre aspettative. Allora, chi è il vero ottimista e chi il pessimista?

Ma il ragionamento può essere un altro. L’ottimista, che si aspetta sempre il meglio, vive in una condizione permanentemente anche se solo virtualmente– positiva, mentre l’altro, anche se le cose gli vanno bene, vive in una condizione virtualmente negativa.

A conti fatti è meglio essere ottimisti o pessimisti?

Il significato dei due termini emerge con chiarezza dalla loro opposizione? O questa non è così oppositiva come sembra?

Ordine / Disordine

Le parole hanno in genere più significati, spesso anche lontani tra di loro ed è il contesto a stabilirli. Una parola come 'ordine', la troviamo in espressioni come:
  • l'ordine dei magistrati,
  • l'ordine dei gesuiti,
  • il comandante emanò un ordine,
  • l'ordine dei coleotteri,
  • ordine alfabetico,
  • logica del prim'ordine,
...

Il senso che qui ci interessa si chiarisce invece in rapporto al suo opposto, disordine (provate a sostituirlo nelle espressioni precedenti). Ecco alcune espressioni aperte ad ambedue:
  • la stanza è in ordine/disordine,
  • l'ordine/disordine dell'universo,
  • è un tipo amante dell'ordine/disordine, 
ecc.

All'ordine attribuiamo normalmente una connotazione positiva, tant'è che per molti secoli l'abbiamo cercato anche laddove non c'è: nell'universo appunto, nel ‘creato’. E perché ve l'abbiamo cercato? Per il presupposto culturale, ideologico, religioso che, essendo stato creato da Dio, non poteva contenere imperfezioni e il disordine era visto come il massimo dell'imperfezione. E fino a un certo punto (individuabile grosso modo in Newton) il pensiero scientifico sembrò confermare la perfezione del mondo. Successive ricerche, a cominciare da quelle sui gas hanno introdotto nella scienza il criterio del disordine, che un po' alla volta ha invaso il campo avverso con i concetti di relatività, probabilità, statistica, fino all'indeterminazione della teoria dei 'quanti' e oltre.

Mentre per la scienza (biologia compresa) il primato dell'ordine sul disordine non è più sostenibile, il pensiero comune continua a privilegiarlo. Si dirà –e con qualche ragione– che non è scritto da nessuna parte che a dettar legge debba essere il pensiero scientifico. Ciò non toglie che possa essere utile –ad esempio per la sopravvivenza– domandarsi perché il pensiero comune sia restio ad accettare ciò che la scienza gli suggerisce. Cercare un determinato libro in una biblioteca ordinata (per esempio per materie o autori) è certamente assai più agevole che in un'accozzaglia di libri su un carrettino. E così un tempo lavorativo ordinatamente scandito è più produttivo di uno che non lo sia. È vero questo? Anche per una libera attività, per esempio artistica, o per il lavoro agricolo?

In politica l'accento viene posto ora sul concetto di libertà, ora su quello di ordine. Sono conciliabili questi due concetti o sono oppositivi? Libertà è sinonimo di disordine? Per certo estremismo anarchico è così, ma non di rado è l'eccesso di ordine 'locale' a produrre disordine a un livello più generale (si considerino da questo punto di vista il nazismo o i regimi più rigorosamente comunisti). Ai livelli minimi della famiglia e dell'individuo l'ordine viene invocato a difesa della sicurezza, dimenticando però che l'ordine e la sicurezza nostri si pagano spesso con il disordine e l'insicurezza altrui.

Onestà

Sul concetto di ‘onestà’ c’è un accordo abbastanza ampio: un truffatore non è considerato un campione di onestà. Eppure ‘un uomo onesto’ non è l’esatto equivalente di una ‘donna onesta’. A stabilire il significato di ‘onestà’ contribuiscono le leggi e le abitudini del luogo, ma anche le convinzioni personali. Una prostituta onestissima può essere giudicata disonesta a priori, per mestiere che fa, mentre un affarista che si sia arricchito sulla pelle degli altri resta ‘persona onestissima’ fin quando non sia incappato in qualche articolo della legge. Spesso entra in gioco anche la morale. Questa è in genere più elastica delle leggi: rubare i ricchi per donare ai poveri è certamente contro la legge, ma moralmente meno condannabile del contrario, che viene peraltro praticato su larga scala (per esempio dai paesi ricchi nei confronti di quelli poveri), senza che la legge abbia nulla da eccepire.

A tutela dell’onestà, se questa è una virtù, non è quindi sufficiente richiamarsi alle leggi. Un’abile avvocato riesce assai spesso a tirar fuori di impaccio un abile imbroglione. Lo diremo suo complice per questo? No di certo: l’avvocato fa il suo mestiere in piena onestà, e, se riesce a vincere la causa, anche l’imbroglione risulterà aver fatto onestamente il suo. E allora, come distinguere onestà da disonestà?

Si dirà: in base al ‘senso morale’, che, per elastico che sia, è forse più affidabile del rigido formalismo legale.

Ho poc’anzi messo in dubbio che l’onestà sia una virtù. Si può essere onesti per educazione ricevuta o per abitudine. Socialmente parlando non contano le ragioni della tua onestà, purché tu sia onesto. “Vieni, andiamo a svaligiare una banca!” “No.” “Perché?” “Perché ho paura.”

Nozione

(Ricavo questa voce da uno scritto del 2003, Dal sapere al pensare)

Un tempo padrone assoluta del campo, oggi più o meno ridimensionata nei gradi inferiori della scuola, ma tuttora imperante in quelli superiori, la nozione sta comunque al centro di ciò che chiamiamo il sapere e che la scuola si sente obbligata a trasmettere. Alcune nozioni si conservano a lungo e sono quelle che si patrimonializzano; altre, e sono la maggior parte, perdono di valore o addirittura vengono falsificate da nozioni successive. Tutte sono oggi facilmente immagazzinabili nelle memorie artificiali dei computer.

Da qualche decennio i programmi scolastici tentano di reinterpretare la nozione come strumento e non come unità patrimoniale del pensiero, ma i meccanismi di acquisizione e di riscontro restano di fatto gli stessi e la scuola ne approfitta per non cambiare. La nozione pura e semplice, sia che aggravi la nostra mente sia che occupi un certo quantitativo di memoria in un computer, resta un elemento inerte se la nostra mente non riesce a penetrarla criticamente, relativizzarla all'UCL di cui è, appunto, elemento.

In una cultura sufficientemente omogenea e stabile la scuola di tipo nozionistico e trasmissivo aveva la sua ragione d'essere. Oggi, con l'indebolimento delle fedi e delle ideologie, con la sempre più accentuata compresenza, anche in un ristretto territorio, di culture e religioni diverse, oggi abbiamo bisogno che la scuola del sapere si trasformi in una scuola del pensare.

E che faremo della nozione? La espungeremo dal nostro orizzonte metodologico?

Ovviamente non. La manterremo, ma non più come punto di arresto di un processo mentale (verificabile con un'interrogazione), ma come nodo problematico da sottoporre a costante rielaborazione.

Nemico

Come nel caso di 'amico', ancora una trappola tesa dal verbo 'essere', o meglio da chi si serve del verbo 'essere' per tenderla. Credo che nessuno nasca da 'nemico'. Nemici si diventa perché qualcuno o qualcosa ci spinge a diventarlo. Sono molti che spingono e forti sono gli interessi che trasformano gli uomini in 'nemici'. Ideologie e religioni fanno la loro parte. Se, ogni volta che qualcuno ci viene indicato come 'nemico', ci soffermassimo a riflettere, metaculturalmente, su che cosa c'è lo rende tale, almeno metà dei nemici scomparirebbe. Perché scomparisse anche l'altra, la stessa operazione dovrebbe essere compiuta da coloro cui noi veniamo indicati come nemici. È utopia questa o tra non molto diventerà una via obbligatoria per la sopravvivenza?

Necessità

“Respirare è una necessità vitale.”
“Sento la necessità di una boccata d’aria.”
La parola è la stessa e anche il significato sembra essere lo stesso. Varia solo il suo grado di intensità, definito dal contesto e in particolare dal verbo: l’apodittica affermazione ottenuta tramite il verbo ‘essere’ (rafforzata da quel ‘vitale’) nel primo caso, l’ammorbidimento relativizzante di ‘sento’ e del termine metaforico ‘boccata’ nel secondo.
Come sempre, è la frase, il discorso a precisare il significato ‘locale’ di una parola. Poiché ogni parola di una frase, di un discorso ha bisogno dell’insieme delle altre per produrre una comunicazione significante, è come se la somma di molte imprecisioni desse come risultato una precisione. Ma non è tanto che si sia raggiunta questa, quanto che sia diminuita l’altra; forse la precisione assoluta è ottenibile solo con un numero infinito di parole, cioè con un’approssimazione infinita. Questo ci dice oltretutto anche la matematica. Ma è raggiungibile l’infinito? Capiremo noi fino in fondo il discorso di un altro?

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Il concetto di necessità è alquanto elastico, cioè di estensione variabile, quanto all’ambito di riferimento, rigido nel significato. E da questa duplice, contraddittoria natura nascono le più diverse interpretazioni.
In filosofia e in logica si parla, date certe premesse, le conseguenze ‘necessarie’, tali cioè che non potrebbero non darsi, come l’esistenza di Dio nel modello causale (Dio = causa prima). Nell’uso comune necessità primarie sono considerate ‘mangiare, bere, dormire’, cui altre se ne potrebbero aggiungere a salvaguardia della specie, come ‘riprodursi’, ‘associarsi’ ... Ma proprio dalla necessità di vivere associati prendono origine le necessità ‘contingenti’, dettate dalla cultura del gruppo e amministrate dai suoi capi. Già la struttura gerarchizzata, presente in forme diverse in tutte le società, viene percepita come una necessità pratica se non teorica. Gli anarchici, che la negano in linea di principio, nei fatti non possono che condividerla. Questa struttura gerarchica, che riconosce se non altro un capo e un sacerdote (o ‘sciamano’), porta con sé la conseguenza necessaria di una distinzione di ruoli, resa visibile da ‘privilegi’ che definiscono una ‘casta’. La spinta alla gerarchizzazione moltiplica le caste –modernamente: ‘classi sociali’– ciascuna delle quali moltiplica i suoi caratteri distintivi. La società viene così organizzandosi in modo da rendere ‘necessaria’ l’esibizione di questi caratteri, facendo sì che la sola esibizione valga come distintivo di classe. Si alimenta in tal modo un ‘mercato di esibizioni’ che muove l’economia del mondo.
Come per altre voci di questo schedario, abbiamo qui prospettato un percorso evolutivo di fantasia, ma non del tutto improbabile, in appoggio a una tesi che solo in chiusura viene espressa: la tesi che molte delle nostre necessità sono ‘necessarie’ solo a chi le gestisce a proprio vantaggio. Padrone il lettore di non condividerla (si veda anche bisogno).

Movimento / Stasi

Due letture antitetiche del mondo, filosoficamente rappresentate già nel pensiero greco antico come 'divenire' (Eraclito) ed ‘essere’ (Parmenide). Nella traduzione ideologico-politica degli ultimi secoli si parla piuttosto di 'progresso' e 'conservazione', dove peraltro i contenuti possono addirittura invertirsi e ciò che ieri era considerato progressista (per esempio il comunismo) oggi è tacciato di conservativismo e viceversa per il capitalismo.

C'è da domandarsi se il medesimo capovolgimento è pensabile anche in ambito fisico: che cioè il moto venga percepito come immobilità e questa come movimento. Nulla di più quotidiano e c'è solo da stupirsi che il primo ad accorgersene (o almeno basare su questa constatazione una visione del mondo) sia stato Galileo alla fine del Rinascimento: per chi si trova in un veicolo in movimento il suo dirimpettaio sta fermo, mentre per chi riguarda da fuori ambedue si muovono con la velocità del veicolo. Dunque: si muovono o stanno fermi?

Come è noto, la risposta non è senza conseguenze per il pensiero, e IMC è solo l'ultima ipotesi in ordine di tempo e probabilmente la più ovvia. Eppure per il pensiero comune le cose stanno ancora come prima di Galileo (a prescindere da Einstein e da ciò che è avvenuto dopo). Certo a scuola i ragazzi imparano chi erano Galileo, Einstein e gli altri, ma queste restano nozioni sganciate dalla quotidianità. Ciò che il loro pensiero potrebbe (dovrebbe) significare per il nostro viene nascosto dalla specificità disciplinare: 'ma quella è fisica, che ha a che fare con la vita reale?'

Misura

Normalmente la misura trasforma una qualità in quantità.

E lo fa assoggettando la diversità qualitativa al numero, alla matematica.

Gli umani non si accontentano di constatare che una certa cosa è più grande, più pesante, più vecchia di un'altra ma vogliono sapere di quanto e più grande, più pesante, più vecchia e questo 'quanto' deve essere inequivocabilmente espresso da un numero. Siamo abituati a contare tutto e, quando ci mancano le entità individuali da contare (siano esse pomodori, mattoni o persone) ricorriamo all'unità di misura, metro, grammo, secondo ecc. Queste sono delle entità fittizie, ricavate da variabili continue o ritenute tali, come lo spazio e il tempo, per dominarle concettualmente attraverso il numero. Una volta definite in qualche modo (sempre attraverso il numero) queste unità si cristallizzano (reificano) nella nostra mente fino a diventare degli oggetti che per il senso comune hanno la concretezza di un sasso, di un panino. Con questi 'pseudo oggetti' misuriamo quelli ‘reali’ che il mondo ci propone.

Se ora qualcuno ci domandasse quanto è lunga una trave di 3 m, risponderemmo che è lunga 3 m. Sapremo però che cosa stiamo affermando?

  • una proprietà della trave
  • una proprietà che noi proiettiamo sulla trave
  • un rapporto tra la proprietà della trave (la lunghezza) e la proprietà analoga di un 'oggetto' (l'unità di misura) di nostra invenzione
  • l'esistenza di un numero che esprime tale rapporto
  • una nostra conoscenza


"L'uomo è
misura di tutte le cose" ha detto un tale molto tempo fa.
Che avrà voluto dire?


Metaparola

Cosa distingue una normale parola da una 'metaparola'?
Il momento riflessivo.

Infatti utilizziamo parole tutti i giorni nella comunicazione; ma, in un momento speciale -votato alla riflessione- scegliamo una di queste e, attraverso un'azione specifica, la facciamo diventare metaparola.

Quest'azione specifica consiste principalmente nel rendersi consapevoli degli antecedenti culturali della parola stessa e, conseguentemente nel saperli esprimere.
'Antecedenti culturali' vuol dire semplicemente i contesti, le finalità, le intenzioni, i presupposti con le quali la parola viene normalmente usata. Tutto ciò (contesti, finalità, ...) non sono di regola delle variabili a disposizione del singolo parlante, ma sono un portato ideologico della cultura che contiene la parola.
Esplicitarli, cioè portarli al piano della consapevolezza e così facendo esporli ad una revisione critica, non vuol dire prendere posizione a favore o contro; tanto meno vuol proporre degli usi 'alternativi', 'inusuali' di detta parola.

Altrimenti detto, il passaggio dalla parola alla metaparola vuol significare un passo in direzione dell'autonomia delle scelte. Non solo delle espressioni ma, in fin dei conti, del pensiero. E così si ritorna all'uso quotidiano della parola -forse, auspichiamo, diventata in questo modo metaparola-.

Nota storica: il termine 'metaparola' è stato suggerito nel lontano 2008 da Alessandro De Rosa.

Maschio / Femmina

Dal punto di vista biologico la distinzione non offre difficoltà, almeno per ciò che riguarda gli animali cosiddetti superiori. Tra gli insetti, i molluschi e altri ordini l'ermafroditismo e la monosessualità non sono una rarità. Quanto al comportamento sessuale, anche tra gli uccelli e i mammiferi, come tra gli uomini, non si osserva una netta separazione. Sembra quasi che mascolinità e femminilità siano condizioni-limite raramente verificate al 100/100. Questo non tanto per l'atto sessuale in sé quanto per altre caratteristiche comportamentali attinenti soprattutto la specie umana. Così quello che potremmo chiamare 'ermafroditismo mentale' è comune a molte persone, in particolare agli artisti. Certi casi di ipersensibilità nei confronti di situazioni, espressioni complesse sono probabilmente riconducibili a tali condizioni di ambiguità sessuale.

Se così stanno le cose c'è da domandarsi a che si devono le condanne ripetutamente espresse dalle religioni, dalla morale corrente e talora anche dalla politica contro modi di pensare e di agire intersessuali, quando assai più pericolose e socialmente dannose sono certe manifestazioni estreme, soprattutto maschili? È perché la localizzabilità dei comportamenti estremi è più facilmente gestibile della loro fluttuazione? Per le ideologie patriottiche gli uomini servono a difendere la patria e i suoi poteri, le donne per fornire chi li difende. Anche il femminismo ha un senso solo se lo si vede come reazione a millenni di asservimento della donna all'uomo. E così la parità tra i sessi non può significare omologazione comportamentale che azzererebbe d'un sol colpo la ricchissima variabilità intermedia che separa e congiunge l'uomo della donna.

Magia

La magia in senso stretto è oggi molto meno praticata di un tempo, in particolare nei paesi economicamente più avanzati. Il pensiero magico invece gode ancora dei massimi favori anche da noi. Pratiche di scongiuro, oggetti portafortuna, formule propiziatorie sono all'ordine del giorno e sono rare le persone che, potendo, non evitano di incrociare un gatto nero o di passare sotto una scala a pioli. Alcuni rituali pertinenti alla religione, come il segno della croce, hanno assunto nella quotidianità un valore più magico che religioso. Non siamo nemmeno sicuri che le scienze, segnatamente quelle mediche,  così come la psicologia e la psicoanalisi siano del tutto estranee al pensiero magico. Siamo sempre in grado di distinguere tra effetto 'placebo' e reale potere terapeutico di un certo medicinale?

Del resto anche la chimica e la fisica moderna nascono sul terreno dell'alchimia (Keplero, l'interprete matematicamente rigoroso del movimento dei pianeti, era un alchimista). La 'fede' degli illuministi nella ragione come strumento d'indagine della realtà presupponeva la razionalità del reale, un a priori logico non dissimile dalla correspondenza 'magica' di un rappresentato con ciò che lo rappresenta. 'Magica' è anche l'ipotesi del numero presso i pitagorici, dell'idea in Platone, dell'idea di Dio in quelle religioni –e sono la maggior parte– che ce l'hanno. Forse proprio al pensiero magico è riservato il compito di raggiungere da un lato l'idea e dall'altro la realtà; o è quest'ultima a non essere altro che un prodotto della nostra mente, cosicché il suo raggiungimento equivarrebbe a un atto metaculturale di riflessione? Conoscenza come identificazione magica?

(da Stili di pensiero 3.6)

 

Livelli

Vedere gerarchia-livelli.

Invenzione

“È un autore (scrittore, poeta, musicista, pittore …) ricco di invenzione”.

“L’invenzione del motore a scoppio”.

“Non è una scoperta, è un’invenzione!”

...

Stando alla derivazione dal latino, l’invenzione sarebbe piuttosto la scoperta di qualcosa che c’era ma non si conosceva, mentre nell’uso italiano è piuttosto la creazione di una imprevista novità. Ma vediamo meglio.

Lo scrittore o il poeta che ‘inventa’ non crea di certo le parole di cui si serve e neppure la grammatica, la sintassi, la struttura delle frasi e del discorso. Tutt’al più interverrà su questi elementi entro limiti che consentano al lettore di riconoscerli e di riorganizzarli nel proprio pensiero. ‘Ma ciò che viene detto o scritto, il contenuto della comunicazione è certo frutto di invenzione ...’ Anche se il contenuto non è un fatto di cronaca, i costituenti di questo contenuto, per essere compresi, debbono fare riferimento a dati di esperienze comuni anche al lettore. Se vuole essere veicolo di comunicazione anche il contenuto deve preesistere in qualche modo nella mente del ricevente. Lo stesso vale per la musica, per le arti visive, gestuali ecc., che per trasmettere i loro messaggi si servono con maggiore o minore libertà di codici iscritti in una o più culture. È certo possibile intervenire sui codici –e molti artisti (forse tutti) lo fanno– ma non sono questi gli interventi normalmente giudicati invenzioni, bensì quelli riguardanti il contenuto, cioè il livello più superficiale e afferrabile dell’opera. L’invenzione, quando c’è, è assai più nascosta e per di più spesso oscurata dall’abitudine culturale che ci fa apparire ovvia una soluzione che alla cultura coeva sarà apparsa sconvolgente.

Instabilità

Vedere stabilità / instabilità.

Inizio/Fine

Tutto ciò che ha un inizio avrà necessariamente una fine.

– Tutto ciò che avrà una fine ha avuto necessariamente un inizio.

Sono vere queste due frasi?

C’è probabilmente chi le reputa vere e chi no. Una retta ha un inizio, una fine? Ma la retta non è un ente reale. Il tempo ha avuto un inizio? Avrà una fine? Ha senso chiedersi se il tempo esisteva prima del Big Bang? Il tempo esiste? Dove? Quando? Qui ed ora ... nel tempo.

L’anima è immortale ... ma ha avuto un inizio (una specie di semiretta) ...

Dio non ha inizio né fine ... come l'attimo, come la retta, come il punto ...

...

Se non ci fossero quelle due parole (‘inizio’, ‘fine’), anche le precedenti domande non si porrebbero.

Vuol dire che sono le parole –almeno alcune– a generare i problemi? O sono i problemi –almeno alcuni– a generare le parole?

Il linguaggio crea i problemi, ma non li risolve; oppure li incontra e li rispecchia, ma ugualmente non li risolve ... Non risolve perché sono inconsistenti? O forse a essere inconsistente è ogni risposta, quale che sia ...?

Per esempio: inizio e fine sono un problema: per chi? Non certo per i gatti o le formiche e neppure per la vita in genere. Solo per noi, e allora troviamoci una risposta che valga solo per noi! Non necessariamente una stessa risposta per tutti, ma una per ciascuno.

Ma allora la domanda se la risposta sia vera o falsa perde di consistenza. In effetti chi perde di consistenza non è mai la risposta, ma sempre la domanda ...

Individuo

La parola e il concetto che vi si collega sono passibili delle più diverse interpretazioni, debitrici di altre parole, altri concetti. E così c'e qui afferma l'unicità dell'individuo, chi la sua origine divina, chi vi vede un prodotto della società o semplicemente il portatore (e trasmettitore) di un patrimonio genetico, chi infine lo considera una molteplicità unificata da un costrutto culturale. Ognuna di queste interpretazioni fa capo a una catena causale che la giustifica. Non è nostra intenzione prendere posizione per l'una o per l'altra, non per lo meno in questa sede. Più potrebbe riguardarci lo studio di che cosa cambia e che cosa si conserva o eventualmente si aggiunge o si perde nella transizione di un modello all'altro. Proponiamo questa indagine al lettore, limitandoci a qualche considerazione come esempio. I modelli tra loro più divaricati sono probabilmente quelli che descrivono l'individuo come un'unità e quelli che lo descrivono come una molteplicità. I primi hanno un fondamento sensoriale nell'appercezione –quella che convinse Cartesio a basare la sua filosofia sul "Cogito ergo sum", i secondi nella pluricellularità dei corpi viventi e nella mutevolezza del pensiero. Che cosa si conserverebbe nel passaggio dell'una classe di modelli all'altra? Probabilmente proprio la facoltà pensante: quella che ci permette di costruire modelli interpretativi sulla base di dati osservativi oppure internamente generati. Questi dati vengono infatti da noi  –dal nostro cervello– messi in reciproca relazione fino a unificarsi in un sistema interpretativo in grado di generare modelli sostitutivi della realtà. E questo processo di unificazione teorica –anche se il suo prodotto è un sistema pluralistico, è ciò che rende possibile la comprensione, la comunicazione e la progettazione.

Ma, dicendo che la 'costante' ravvisabile nei vari modelli non è che la capacità di costruirli si è detto assai poco. La divaricazione uno/molti resta, e per suturarla bisogna ricorrere a uno 'stile' mentale diverso da quello della logica classica (vero/falso). Attenendoci a IMC, sappiamo a priori  che è possibile costruire un UCL che risolve la predetta antinomia, ma vediamo che ci ha già pensato l'evoluzione biologica legando la molteplicità fenomenica all'unicità progettuale del genoma. Il di più che si ottiene nel passaggio dal modello unitario a quello pluralistico e viceversa sta nella 'deideologizzazione' di ambedue e nella conquistata reversibilità della transizione. Di qui in poi il discorso si fa pratico, operativo, con la disattivazione dei meccanismi aggressivi di natura ideologica. Ripetiamo: questo è solo un esempio con implicito invito al lettore a esercitarsi in proprio.

Immigrato - Emigrato

Un modo di vedere troppo semplicistico distingue immigrato da emigrato. Se questa distinzione è applicata al fenomeno dell'emigrazione/immigrazione nella sua generalità, può avere un senso, dipendente dal punto di vista. Se viene applicata agli individui, la distinzione rischia di farsi discriminante e si finisce per dimenticare che ogni immigrato è al tempo stesso un emigrato. La figura dell'italiano emigrato in America, così come ce lo mostrano le narrazioni anche cinematografiche, è ben diversa da quella dell'immigrato che si diletta di furti e prostituzione. E ci si dimentica che, oltre alle persone, la nostra emigrazione ha esportato anche la mafia, mentre l'immigrazione ci ha fruttato forze di lavoro a basso costo e, spesso, alto rendimento. Ma sono ben altre le cose di cui ci si dimentica. Per quale ragione le persone, addirittura interi popoli emigrano dai loro luoghi di origine, affrontando disagi e pericoli per approdare, qualora ci riescano, a situazioni lavorative precarie tra la malcelata ostilità di chi pensa di essere defraudato di un qualche suo diritto?

La risposta è ovvia: perché le condizioni di vita in patria sono ancora peggiori ... (o perché qualcuno ha interesse a fargli credere che qui troveranno il benessere e potranno fare ciò che vogliono giacché da noi vige la tolleranza? ...).

Inoltre: se le condizioni di vita in certi paesi, ricchissimi di materie prime e fonti energetiche, sono di tanto inferiori alla nostra, non è perché altri paesi vivono alle loro spalle, sfruttandone sia le ricchezze che la forza lavoro?

Ignoranza

“Massima l'ignoranza in quei che sanno”.

Infatti colui che sa pensa di saperne di più di chi non sa, mentre la differenza è infinitamente piccola. Cambiano le cose che si sanno, ma la quantità di informazioni immagazzinate nei nostri cervelli potrebbe essere suppergiù la stessa per tutti. Non sappiamo se sia vero, comunque la società ci guadagnerebbe se pensassimo così.

Invece i rapporti umani si costruiscono sulla disparità tra chi più sa e chi meno sa. Non solo, ma questa disparità si ripercuote, senza giustificazione alcuna, su ogni aspetto della vita: in genere chi è considerato sapiente –oggi si dice piuttosto ‘colto’– vive meglio, è più rispettato e retribuito, ha una casa più confortevole di chi è considerato 'ignorante' anche se sa 'tutto' sulla coltivazione delle patate. Tanto più che il saper di scienza o di patate non dipende dalle dimensioni del cervello e neppure da libera scelta. È il caso, travestito da condizioni economiche, a scegliere chi è destinato alla scienza o alle patate.

Si obietterà che il punto non è tanto il sapere, quanto ciò che ne facciamo, e chi sa di patate può essere utile a sé e agli altri più di chi sa di filosofia. Il sapere non va di pari passo con il saper fare e spesso non è l'ignoranza che ci viene rimproverata, ma l’inettitudine. È giusto questo rimprovero? All'ignoranza è possibile ovviare informandosi, ma l'incapacità a trarre vantaggio dall'informazione potrebbe essere congenita o frutto di scelta consapevole. Ma anche l'ignoranza può essere una scelta: "Beati i poveri di spirito ...". Al solito, anziché giudicare fermiamoci al costatare e al cercar di capire.

Gerarchia - Livelli

È la caratteristica strutturale di molti sistemi o forse è meglio dire che è un modello di struttura che siamo soliti proiettare sugli insiemi ottenendone spesso dei risultati razionalmente comprensibili e operativamente utili. Le strutture gerarchizzate implicano dei livelli composti da elementi di livello inferiore ma con in più una proprietà 'emergente' che non si riscontra singolarmente in nessuno dei componenti. Gli esempi classici sono tolti dalla biologia come la serie cellula-tessuto-organo-organismo, oggi estendibile nei due sensi fino ai quark da una parte e la biosfera dall'altra. Questi livelli, ordinati in base al criterio di complessità crescente vengono da noi valutati in genere dal meno al più secondo questo stesso ordine –e non per esempio in ordine inverso–, con la strana eccezione che molte religioni pongono al primo livello (fondante) la struttura più complessa di tutte: la divinità creatrice. Per IMC questo ordinamento è culturale e un livello fondante non è raggiungibile razionalmente. In tempi recenti questo modello strutturale per livelli è stato riconsiderato proprio alla luce del concetto di 'complessità'. I livelli non sono caratterizzati più solo dagli elementi (strutture di livello inferiore) che li compongono, ma anche dalle relazioni che li tengono uniti o li separano, e queste relazioni possono ritrovarsi, identiche o quasi, in alcuni o tutti gli altri livelli: è la 'ricorsività' che lega tra loro i vari livelli e che è probabilmente responsabile e delle 'emergenze' di cui si diceva e della solidità interna (‘organicità’) dei livelli superiori.

Ai fini della sopravvivenza tutti i livelli e i modelli relazionali –ricorsivi e non– che ne uniscono gli elementi sono pariteticamente necessari ed è l'implicito riconoscimento di questo fatto ciò che rende le società degli insetti più solide e affidabili della nostra.